Il serpente di bronzo – Nm 21,4-9

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Dal libro dei Numeri
Nm 21,4-9

In quei giorni, gli Israeliti si mossero dal monte Or per la via del Mar Rosso, per aggirare il territorio di Edom. Ma il popolo non sopportò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: «Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero». Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente, e un gran numero d’Israeliti morì. Il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; supplica il Signore che allontani da noi questi serpenti». Mosè pregò per il popolo. Il Signore disse a Mosè: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita». Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita.


Il libro dei Numeri – quarto del Pentateuco – prende questo nome dalla serie di liste numeriche, elenchi e registrazioni che si trovano al suo interno, ma tratta dei quarant’anni di peregrinazione del popolo di Israele nel deserto dopo la liberazione dall’Egitto, prima di arrivare alle steppe di Moab, alle soglie della terra promessa. Composto in epoca vicina all’esilio babilonese, il libro guarda al passato proiettandovi le proprie preoccupazioni. Nel testo si fa riferimento a un lungo e lento procedere che viene presentato come l’avanzata insieme: di un corteo militare e di una processione religiosa. Il cammino in fondo è geografico e spirituale. Sarà solo la seconda generazione degli esuli, con la memoria purificata, che potrà entrare nel paese di Canaan. Ma prima, nel deserto, ci si trova ad affrontare pericoli e tentazioni che mettono a dura prova la fede e le immagini della speranza.

Il motivo ricorrente durante il cammino è infatti la mormorazione, che fa alternare la gioia per la libertà conquistata alla nostalgia di quanto lasciato. Le promesse tardano ad avverarsi e consumano le riserve della speranza. I pericoli fanno rimpiangere le piccole gioie di un passato da schiavi.

La soluzione prospettata nel brano contro i serpenti (una loro raffigurazione in bronzo sopra un’asta) è esposta ad un grave equivoco: la si può considerare come un amuleto magico dimenticando che la salvezza viene dal Signore. (Particolare curioso: nello stemma dell’Organizzazione Mondiale della Sanità campeggia il bastone di Esculapio, una verga attorno alla quale è attorcigliato un serpente, proprio della cultura greca antica per la quale era simbolo delle arti mediche).

Il lato magico – ben spiegato in Sap 16,5ss –  sarà combattuto da Ezechia come una grave idolatria (2Re 18,4). Nell’incontro con Nicodèmo, Gesù riprenderà l’episodio per applicarlo alla propria morte, ampliandone l’orizzonte di senso: ≪E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna≫ (Gv 3,14).

Nell’omelia di questa mattina a Santa Marta, Papa Francesco ha mostrato con chiarezza il significato profondo dell’episodio: come un segno di peccato fu usato da Dio per salvare, così Gesù si fece peccato per salvare. Guardare alla croce di Gesù come colui che si è caricato dei nostri peccati può dare corpo ad una preghiera intensa e seria, vero esercizio spirituale per la settimana santa in preparazione alla Pasqua.

d. Fabrizio