La preghiera di Geremia – Ger 20,10-13

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Ger 20,10-13

Sentivo la calunnia di molti:
«Terrore all’intorno!
Denunciàtelo! Sì, lo denunceremo».
Tutti i miei amici aspettavano la mia caduta:
«Forse si lascerà trarre in inganno,
così noi prevarremo su di lui,
ci prenderemo la nostra vendetta».
 
Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso,
per questo i miei persecutori vacilleranno
e non potranno prevalere;
arrossiranno perché non avranno successo,
sarà una vergogna eterna e incancellabile.
 
Signore degli eserciti, che provi il giusto,
che vedi il cuore e la mente,
possa io vedere la tua vendetta su di loro,
poiché a te ho affidato la mia causa!
 
Cantate inni al Signore,
lodate il Signore,
perché ha liberato la vita del povero
dalle mani dei malfattori.


Il brano riporta una parte dell’ultima confessione, forse la più intensa, del profeta Geremia.

Il contesto storico in cui si svolge la missione del profeta è complesso ma merita brevemente richiamarlo. Siamo nella seconda metà del VII sec. a.C. nel regno di Giuda, ai cui fragili confini premono grandi imperi. Al sud domina l’Egitto mentre al nord la potenza assira, che esercita un forte influsso sulla regione, sta per soccombere sotto la pressione dei babilonesi. A governare Giuda è salito al trono nel 639 a.C. Giosia, un re che tenta di attuare due ambiziosi progetti: una riforma religiosa, tesa alla centralizzazione del culto presso il tempio di Gerusalemme, e la riunificazione di tutto il popolo mediante un’annessione del regno del Nord.

Quando nel 612 a.C. il faraone Necao organizza una campagna verso Israele nella speranza di fermare l’avanzata dei babilonesi, Giosia tenta di disturbarne i piani, a sua volta sperando di affermare la propria indipendenza. Ma viene fatto uccidere (609 a.C.) e al suo posto, dopo la breve parentesi di Ioacaz, il faraone nomina Ioiachim, personaggio debole e tirannico. Questi conduce contro ogni evidenza una politica filo-egiziana, non rendendosi conto che il quadro geo-politico sta cambiando rapidamente. Dopo la battaglia di Karchemish, presso l’Eufrate nel 605 a.C., tutta la regione siro-palestinese cade sotto la dominazione babilonese. I tentativi di rivolta vengono duramente stroncati: Nabucodonosor re di Babilonia marcia su Gerusalemme e nel 598 a.C. l’assedia. Ioiachim muore. Il suo successore Ioiachin e alcune migliaia di persone delle classi dirigenti (tra queste c’è il profeta Ezechiele) vengono deportate. A governare il regno di Giuda, Nabucodonosor nomina un figlio di Giosia, Sedecia. Questi tenta in due occasioni di  ribellarsi, ma inutilmente: nel 587 a.C. Nabucodonosor torna con l’esercito in Giuda ponendo fine all’indipendenza. Gerusalemme viene saccheggiata e devastata, il tempio di Salomone distrutto e gran parte della popolazione esiliata (di questi eventi porterà l’eco il libro delle Lamentazioni). Ormai tutto Israele è perduto. Inizia in questa data il periodo conosciuto come l’esilio babilonese che terminerà solo nel 538 a.C. quando con un editto il re persiano Ciro, subentrato ai babilonesi, permetterà agli esiliati il ritorno in patria.

Il profeta Geremia svolge la propria missione in questo contesto tormentato. Aveva in un primo momento accarezzato il sogno della riforma di Giosia: un solo re, un solo popolo, un solo tempio, ma si era presto dovuto scontrare contro un’amara realtà: molte ingiustizie sociali erano venute a moltiplicarsi per colpa di potenti pingui e miopi; a queste si erano sommati culti senza fede ed era soprattutto cresciuto il grave pericolo di idolatrare la politica. Quest’ultimo sarà la fonte principale dei contrasti che porteranno Geremia a subire persecuzioni e carcere. Invano il profeta predicherà di non opporsi ai babilonesi, riconoscendo in essi uno strumento nelle mani del Signore per riportare la giustizia, e invano predicherà di non leggere la storia secondo i meri calcoli del mondo ma secondo la fede. Non gli sarà dato ascolto. E finirà i suoi giorni, suo malgrado, esule in Egitto. In questo contesto maturano le sue confessioni.

Quella riportata nel brano è una preghiera. Farla propria comporta riconoscere nelle parole del profeta il pianto di tutti i credenti che soffrono: di quelli che si scontrano con avversari empi, increduli, che deridono e sbeffeggiano la speranza di chi crede. Ciò che sblocca il lamento e lo porta alla speranza è il maturare della consapevolezza che Dio, invocato, è l’unica persona capace di riempire la vita e rendere felici. Perché è il bene. Ed è vicino. Guadagnare questo sguardo non è semplice. Ma il primo passo è proprio quello di parlargli. Lungi dall’essere un dialogo intimistico di auto-convincimento, la preghiera è rivolgersi ad un tu che ascolta. E sa intervenire. Alle parole di Gesù in croce, Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? (che, vale la pena ricordare, sono le parole di una preghiera, il Sal 23) Dio interverrà. Con la risurrezione.

d. Fabrizio

One comment

  1. Grazie x le sue spiegazioni della prima lettura tutte le sere. È come essere in Chiesa.

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